03 aprile 2010

Il tramonto dei non luoghi

Fonte: Exibart
Autore: Daniele Vazquez.


Per sbarazzarsi di un concetto nocivo spesso ci vogliono secoli e, alle volte, tutti gli intellettuali di un’epoca, pur nemici su altri fronti, possono trovarsi fianco a fianco in questa lotta per la distruzione di un concetto che getta nello scompiglio e nel panico il pensiero dei contemporanei. Eppure, il valore di quel concetto è direttamente proporzionale alle forze che un’epoca mobilita contro di esso (in certi casi, una simile lotta può divenire addirittura grottesca, come quando Gilles Deleuze, nelle conversazioni con Claire Parnet, se la prese con il sistema binario dell’informatica). Quello di nonluogo non è certo tra questi concetti. Pur avendo occupato per tre lustri la ribalta dei dibattiti sui mutamenti dello spazio nella surmodernità, si avvia improvvisamente verso l’estinzione, come il nuovo libro di Massimo Ilardi pare voler sancire.
Fino a non molti anni fa sembrava un concetto in grado di piegarsi a ogni discorso riguardante l’organizzazione dello spazio, dall’antropologia del presente e dalla sociologia urbana all’architettura e alla critica dell’arte (giusto per dirne una, ancora nel dicembre 2007 Omar Calabrese si lanciava a Pavia in un improbabile progetto curatoriale di Estetica dei non luoghi, in cui il povero Beuys si trovava a far compagnia a Mitoraj, Carrà a Cattelan). In realtà, si piegava quasi a tutto e non spiegava quasi nulla. Tuttavia, il problema non era solo nel concetto, ma anche nel fatto che in pochi si erano dati la pena di leggere attentamente il libro di Augé, Nonluoghi, alla sua uscita in Italia. Il nonluogo era, secondo una definizione dell’antropologo francese, uno spazio che non può definirsi identitario né relazionale, né storico. Ma si veniva avvertiti fin dall’inizio: «Non esiste mai sotto una forma pura», «dei luoghi vi si ricompongono», «delle relazioni vi si ricostituiscono». Il luogo antropologico e il nonluogo erano da intendere solo come polarità sfuggenti. Il nonluogo non si compie mai totalmente. Quindi pare abbastanza tardiva l’ammissione di Ilardi quando scrive: «Ma forse questi nonluoghi non sono mai esistiti realmente se non nella nostra mente». Significa che c’è stato un fraintendimento intellettuale che è durato ben quindici anni. Ilardi aveva già tentato diverse volte di sgomberare il campo da questo concetto, prendendolo per una forma pura e non una polarità sfuggente, senza riuscirvi. Ma forse ora i tempi sono maturi. Pur se la fine del concetto sembra avvenire più per decreto che attraverso valide argomentazioni. Che i nonluoghi fossero nella mente degli intellettuali e non negli spazi che attraversiamo quotidianamente era già abbastanza chiaro quando, non molto tempo dopo l’uscita del libro di Augé, alcuni di costoro si cimentavano per gioco nello scovarli dappertutto. Allora erano nonluoghi non solo un autogrill (Eroiche Pompe, così il tema del primo numero di Gomorra, una rivista di cui proprio Ilardi era direttore) o una stazione ferroviaria, ma anche il WC di un bar di periferia o un sottoscala dell’università. Ciò che lascia delusi al termine della lettura di questo libro, per tanti aspetti comunque apprezzabile, è la mancanza di un concetto forte e innovativo che rimpiazzi il nonluogo per ciò cui oggi ormai inadeguatamente si riferisce. Per arrivarci, sarebbe utile rileggere il testo di Augé. I tempi sono talmente cambiati che sentir parlare di “anonimato” e “solitudine dell’individuo” in quelle parentesi che erano i nonluoghi va contro l’esperienza di ciascuno. I non luoghi sono oggi controllati da telecamere e da agenti in borghese, poiché spesso sono “luoghi sensibili” per il terrorismo, la criminalità e il teppismo, e questa minaccia che vi incombe simbolicamente sempre e ovunque li ha trasformati nel loro negativo, ciò che già Augé intravedeva col concetto di paramoderno, dove tutti sono sotto controllo e nessuno è mai solo, ma che rifiutava di immaginare come esito per l’avvenire della modernità. Il nonluogo doveva divenire il fondamento del nuovo “uomo medio”, e così è stato; ma, come ha scritto Giorgio Agamben, oggi «agli occhi del potere nulla assomiglia a un terrorista come l’uomo ordinario» Tuttavia, non è solo da quando gli ultrà muoiono ammazzati negli autogrill o i kamikaze si fanno esplodere nei mercati che il concetto di nonluogo è diventato obsoleto. Già nei primi anni ’90, lungi dall’essere spazi dell’anonimato e dell’innocenza provata dalle carte di credito, i nonluoghi erano territori di conquista, di individuazione a fini di marketing delle strategie desideranti degli utenti; lungi dall’essere semplicemente spazi lisci del mercato, già allora erano striati dalle brutali forze territoriali che se li contendevano. Inoltre, leggendo Augé si potrebbe scoprire che il concetto aveva le sue radici anche in altri autori (in particolare Michel de Certeau e, ancor prima, nel geniale Jean-François Augoyard) e che in origine si riferiva a tutt’altro. Il discorso, infatti, verteva sulle tattiche di appropriazione del territorio da parte degli abitanti, non alle strategie di produzione dello spazio da parte delle élite globali. Questo rovesciamento di senso operato dall’antropologo francese (più a causa dei tipici malintesi che caratterizzano la traduzione di un concetto da una disciplina -la filosofia- all’altra -la sociologia e l’antropologia- che per ragioni intenzionali), ha spostato per tanto tempo il fuoco dell’attenzione e della ricerca antropologica su aspetti poco significativi. Si può finalmente ripartire, grazie anche al libro di Ilardi, a indagare la produzione dello spazio contemporaneo con più libertà di pensiero. E cercare nuovi strumenti concettuali.